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QUESTI FANTASMI – Alexander Lonquich

Vedere abbassare i tasti da soli di un pianoforte “Welte-Mignon” nel riprodurre magari una delle Goyescas suonate da Granados stesso é un’esperienza inquietante. Parrebbe di scorgere il fantasma dell’autore. Ma anche la pura esperienza audio delle prime testimonianze registrate di opere famose del passato ha qualcosa di spettrale. Il luogo nostro si riempie di presenze, spesso alquanto dispettose. Perché sembra quasi che la loro comparsa non sia opera nostra, che siano stati mandati da chissà quale burlone in missione speciale per distruggere l’idea che ci siamo faticosamente fatta di un brano nel corso della nostra esistenza. Come osano per esempio Raoul Pugno e Camille Saint-Saëns alle prese col Notturno chopiniano op.15 n. 2 a materializzarsi al nostro cospetto con delle rese spudoratamente personalizzate, che li porterebbe diritto alla meritata bocciatura in un conservatorio nostrano?! Eppure, pare ci vogliano dire, loro sono in vantaggio su di noi. Sono loro ad aver frequentato chi sapeva. Pugno si abbeverò addirittura quasi alla fonte tramite Georges Mathias, un allievo diretto di Chopin. Ma anche Saint-Saëns non scherza: aveva studiato con Camille Stamaty che proveniva da Kalkbrenner e Mendelssohn. Ma ci lasciano confusi. Neanche si sono presi la briga di mettersi d’accordo sul tempo giusto da adottare.
La versione di Pugno é lentissima, pare che Stamaty gli abbia comunicato che era questa l’idea dell’autore. Saint-Saëns invece (non facciamoci fuorviare dal suono davvero poco sensuale dello strumento a cui é applicato il rullo, i fantasmi sono appunto fantasmi…) va a passo spedito. Ambedue si permettono parecchie libertà riguardo al testo, ottave aggiunte nei bassi (specialmente Pugno), piccole e grandi deviazioni o addirittura riarmonizzazioni (Saint-Saëns). Proprio Saint-Saëns pare d’essere di una freddezza e frettolosità (realizzando all’inizio esattamente il 40 di metronomo prescritto da Chopin) insopportabile, a tal punto che indisponendoci non ci fa quasi accorgere del fatto che la sua è probabilmente la continuazione più pura del caratteristico rubato chopiniano, con la destra che veramente anticipa e posticipa rispetto alla relativamente stabile mano sinistra. Anche l’accentuazione ci appare ben strana, a partire dalla sottolineatura dopo il primo, anche del terzo sedicesimo all’inizio della prima battuta e andando avanti ci accorgiamo poi che Maître Camille continua esprimersi con l’ausilio sistematico di una certa disuguaglianza nell’articolazione, prolungando sovente le note “portanti” . Rimarrà un segreto se quelle certe infedeltà rispetto alla scrittura siano una “conquista” della loro generazione. Si sa quanto Chopin fosse stato invece maniacalmente preciso nella notazione, difficile vederlo approvare tutte quelle licenze. Comunque Saint-Saëns (e Pugno e Leschetizky e Plantè e Risler etc.), insomma tutti “questi fantasmi” ci mettono di fronte all’irrisolvibile rebus sull’autenticità del loro approccio (e di rimando del nostro).
Facendoli apparire uno per uno di fronte a noi, quanto vicini ci troviamo rispetto a delle verità scaturite dalla trasmissione che poi si fa tradizione? Proviamo allora a saperne di più attraverso un salto storico: rispetto alla Quarta di Mahler della quale disponiamo fortunatamente di alcune incisioni di chi lo aveva conosciuto personalmente, con una certa irritazione c’é da chiedersi: come mai sono tanto divergenti? Si sa che Mahler era entusiasta di Willelm Mengelberg, il quale assistette il 23 ottobre 1904 alla duplice esecuzione di Mahler al Concertgebouw. La sua resa del 1939 é piuttosto eccentrica. Già nelle prime tre battute lui allarga il tempo, cosa assolutamente non indicata nella partitura.
L’ “Etwas zurückhaltend” (un po’ trattenuto) del levare della quarta battuta diventa così un gigantesco ritardando (Mahler usava qui applicare ai primi violini un esagerato portando alla viennese, parola di orchestrale). In genere Mengelberg (famoso per i suoi rubati) tendeva in punti chiave a sottolineare con modifiche di tempo non sempre discrete l’impianto strutturale da lui comunque già evidenziato. Del resto era di una precisione maniacale, in questo specifico caso con una notevole propensione a dare ampio spazio al lato parodistico del primo tempo. Influenza di Mahler su di lui? Di quante modifiche al testo fatte dall’autore durante le prove fu testimone? Si sa che Mengelberg preparando un’esecuzione usava parlare molto e fissare ogni dettaglio, lasciando quasi niente all’improvvisazione. Ha comunicato alcuni segreti del lascito mahleriano ai “suoi” musicisti? Per quanto si esprimeva invece la propria personalità, il proprio gusto? Non lo sapremo mai.
La versione di Bruno Walter del 1950 con i Wiener non nega gli elementi “polistilistici” della scrittura, si mantiene però al contrario di Mengelberg in un essenziale equilibrio tra cantabilità e ironia romantica, nel solco di una visione essenzialmente classicheggiante, cercando di non esagerare mai alcun effetto gestuale e sonoro. Smussava gli estremi, sarà difficile per esempio trovare un autentico pianissimo. Era d’indole più classica di Mahler stesso? La sua biografia e il suo lascito discografico lo fanno supporre. Infine l’anziano Otto Klemperer con la Philharmonia Orchestra nel 1962 ci offre una lettura disincantata, filtrata evidentemente dall’esperienza delle due guerre, infarcita della “Neue Sachlichkeit” (“nuovo oggettivismo”) così caratteristica del suo stile : una trasparenza estrema, la flessibilità ritmica come congelata, venendo dalla visione “classica” walteriana si approdo qui a un (neo?)classicismo molto prosciugato, il tutto condito da un sorriso sardonico connesso all’amara consapevolezza della miseria della condizione umana (non per caso si narra che Mahler volle intitolare il primo tempo “Die Welt als ewige Jetztheit”, “Il mondo come eterno qui ed ora”). Mengelberg, Walter, Klemperer: tre testimoni di Mahler direttore in carne e ossa, tra di loro assolutamente incompatibili. Quale potrebbero essere le tracce da seguire in futuro? Particolarmente coinvolgente secondo me era la risposta che diede Leonard Bernstein negli anni ottanta con l’orchestra del Concertgebouw (purtroppo i primi 3 tempi non sono disponibili su YT).
Finalmente possiamo godere della resa letterale delle prime tre battute come scritte da Mahler: Flauti e “Schelle” a tempo, andando per conto proprio, mentre i primi violini insieme ai clarinetti rallentano un po’ alla fine della frase: il tutto espresso esplicitamente in modo asincrono. E poi: equilibrio precario tra incanto/disincanto, trasparenza, pathos, ironia postmoderna (quel punto [numero 4] dove Mahler “cita” lo Stravinsky del “Pulcinella” !), rubato flessibile, coinvolgimento e distanza, idillio “infantile” e senso panico, un insieme di fattori che nessuno dei diretti eredi dell’esperienza mahleriana ha mai unito così in un’esecuzione. In passato capitava di sentir dire: : pareva il compositore stesso a dirigere.
Paradossalmente Lenny, storicamente così lontano dalla fonte, qui ci da questa sensazione,nell’apparenza di un superamento “hegeliano” delle interpretazioni precedenti.
E noi allora? Penso che l’appropriarsi di tutta la complessa e contraddittoria tradizione interpretativa congiunta alla fiducia nella nostra personale capacità di rimescolamento e sintesi ci può portare a scorgere delle ulteriori alchimie. Strumentalizzando il grande Edoardo: “Come?… Sotto altre sembianze? È probabile. E speriamo…». E se provassimo anche ad ascoltare l’ultimo tempo, “Das himmlische Leben”, “la vita celeste” in un confronto tra i nostri, questa volte avendo in più come traccia (chissà se connesso con lassù) il fantasma “Welte-Mignon” dello stesso Gustav Mahler?